L’SDS è un modello di architettura emergente che attraverso un uso intelligente delle componenti applicative consente di ridurre i costi e di liberare risorse. Il tema interessa l’IT quanto il business, come viene spiegato in questo documento di IDC che fa il punto della situazione, descrivendo opportunità e criteri di adozione.
Si chiama SDS e significa Software Defined Storage. La virtualizzazione dello storage sarà la nuova buzzword degli IT manager, perennemente cablati nella gestione di una crescente mole di dati da archiviare e da gestire a fronte di una riduzione dei budget.
L’SDS è un modello che, in estrema sintesi, trasforma una complessità in un servizio. Come? Intervenendo a livello dell’hardware su cui risiedono i dati per eliminare i blocchi e la rigidità legata a un’impostazione proprietaria, presentando il tutto alle applicazioni come un unico pool di storage.
In questo white paper, realizzato da IDC e sponsorizzato da DataCore, sono spiegati numeri e strategie sottese a questa virtualizzazione dei sistemi di archiviazione, aiutando a capire le caratteristiche fondamentali di una soluzione SDS che sono:
- Non deve richiedere alcun componente hardware proprietario
- Deve poter funzionare su più istanze hardware (virtuali e fisiche)
- Deve essere un sistema a sé stante o comunque autonomo
- Deve prevedere un’allocazione automatica dei dati in base a una serie di preimpostazioni
- Deve essere semplice da installare e ridimensionare
L’SDS permetterà alle organizzazioni di trarre vantaggio da una grande varietà di opzioni di storage, dal livello elaborativo alla flash, fino ai dischi tradizionali, così come da numerose interfacce diverse – come blocchi, file, oggetti – e dallo storage basato su cloud. Una scelta che va incontro a quell’IT as a service di cui si parla da tempo come risposta ideale alla scalabilità e flessibilità richiesta dagli utenti in particolare e dal business in generale.
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